Il Latte dei sogni

La Biennale post-pandemica di Cecilia Alemani ci farà scoprire artisti sconosciuti e riscoprire artisti dimenticati, in un ambizioso tentativo di riscrivere la storia dell’arte al di fuori degli schemi consolidati

Nel presentarla alla stampa, il Presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto l’ha definita una Mostra “monstre” l’attesissima 59a Esposizione Internazionale d’Arte diretta da Cecilia Alemani, in apertura ai Giardini e all’Arsenale il prossimo 23 aprile con i suoi 213 artisti e le sue 1.433 opere esposte (di cui 80 nuove produzioni). La cosa non ci coglie troppo di sorpresa, dato che Alemani ha avuto un anno in più per realizzarla, visto l’eccezionale slittamento in avanti del calendario a causa del Covid-19, evento che – fatto salvo per le due guerre mondiali – non era mai successo nei 127 anni di storia della Biennale.

Il Latte dei sogni – questo il titolo dell’esposizione, ispirato al titolo dell’omonimo libro di favole dell’artista surrealista Leonora Carrington (1917-2011) – esponendo per la maggior parte artiste donne e soggetti non binari, e in generale artisti che non hanno mai preso parte alla Biennale d’Arte prima d’ora, riflette tutte le incertezze e gli interrogativi degli artisti in un’epoca segnata dalla pandemia. “Molte artiste e artisti contemporanei stanno immaginando una condizione postumana – spiega Cecilia Alemani –  mettendo in discussione la visione moderna e occidentale dell’essere umano, in particolare la presunta idea universale di un soggetto bianco e maschio, “uomo della ragione” come centro dell’universo e come misura di tutte le cose”.

Candice Lin, Seeping, Rotting, Resting, Weeping, exhibition view from Walker Art Center, Minneapolis, 2021. Courtesy the Artist; François Ghebaly Gallery

Il Latte dei sogni presenta quindi la fine dell’antropocentrismo, esprimendo la complessità lasciata da questo vuoto, scandita dalla pressione della tecnologia, dalla stessa pandemia, dalla minaccia degli incipienti disastri ambientali e l’insicurezza dettata dalle evidenti fragilità delle nostre istituzioni politiche, sociali, culturali. Alemani ha raccolto queste indagini artistiche intorno a tre aree tematiche, che faranno da guida nello svolgersi dell’esposizione nel Padiglione Centrale ai Giardini e all’Arsenale: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le loro tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra.

Andra Ursuţa, Predators 'R Us, 2020. Courtesy the Artist; David Zwirner; Ramiken, New York. © Andra Ursuta

Non avendo ad oggi ancora avuto modo di apprezzare dal vivo l’esposizione, ciò che colpisce di più dell’approccio di Cecilia Alemani, è l’inserimento all’interno della mostra di cinque sezioni storiche (definite “capsule del tempo”), a loro volta suddivise in aree tematiche, dove saranno raccolti lavori che datano dall’Ottocento ai giorni nostri: da opere d’arte vere e proprie a objet trouvé, documenti e manufatti utili ad approfondire i temi della mostra. L’intenzione è dimostrare quanto le incertezze e le indagini artistiche del presente, non siano nuove, ma siano già state a vario titolo e in vario modo affrontate da altri artisti in passato. L’omogeneizzazione delle capsule del tempo con il resto della mostra, è affidato alle mani sapienti del duo di designer Formafantasma che curerà l’allestimento della mostra secondo un’architettura coreografica.

Felipe Baeza, Por caminos ignorados, por hendiduras secretas, por las misteriosas vetas de troncos recién cortados, 2020. Photo Ian Byers-Gamber. Courtesy Maureen Paley, London. © Felipe Baeza

Arricchendo il percorso espositivo con questo filone storico, Alemani segue una metodologia di indagine molto vicina a quella che già abbiamo potuto felicemente apprezzare nella Biennale di Massimiliano Gioni e in un’altra mostra dello stesso Gioni a Palazzo Reale La Grande Madre (tra l’altro anch’essa ispirata ad un libro di Leonora Carrington), ovvero porre una sostanziale riflessione sulle modalità con cui viene costruita la storia dell’arte, troppo spesso il riflesso di scelte e gusti mainstream, decisi da istituzioni, musei, gallerie, seguendo criteri di inclusione ed esclusione influenzati dal gusto del momento e dalla cultura dominante.

La storia dell’arte è in realtà una scrittura delle tante storie possibili, e qui Alemani ci dà un assaggio delle storie alternative, a partire dalla prima capsula del tempo, al Padiglione Centrale, fulcro dell’esposizione, dedicata alle opere di artiste delle avanguardie storiche: Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Lois Mailou Jones, Carol Rama, Augusta Savage, Dorothea Tanning e Remedios Varo, in cui emerge un mondo surreale in cui “anatomie e identità sono trasformate seguendo tracce di desideri di metamorfosi ed emancipazione”.

In Italia conosciamo ancora poco il lavoro di Cecilia Alemani, che da anni vive e lavora a New York dove è direttrice e capo curatrice di High Line Art, il programma di arte pubblica presentato dalla High Line, il celebre parco urbano sopraelevato costruito su una ferrovia abbandonata. Alemani non è però nuova alla Biennale, dove nel 2017 ha curato il Padiglione Italiano con le grandi installazioni di Giorgio Andreotta Calò, Adelita Husni-Bey e Roberto Cuoghi: una boccata d’aria per il nostro Paese, dal lontano 2005 – quando il Padiglione Italiano curato da Ida Giannelli aveva presentato in un confronto scintillante Francesco Vezzoli e Giuseppe Penone – a cui si sono susseguiti per anni progetti deboli e poco originali.

Maria Bartuszová, Untitled (from the series ‘Endless Egg’), 1985. Photo Michael Brzezinski. Courtesy The Estate of Maria Bartuszová, Košice; Alison Jacques, London. © The Archive of Maria Bartuszová, Košice
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Regina Gritti
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