Quarant’anni di carriera, il legame con l’Italia e con l’arte antica, il misticismo, le riflessioni su vita, morte, transitorietà, in video. Tutto Bill Viola è a Palazzo Reale, fino al 25 giugno
Ma c’era bisogno di un’altra mostra di Bill Viola? Questa la domanda che mi rivolge una collega, dopo la visita alla grande mostra, la prima a Milano, dedicata al pioniere e maestro indiscusso della video arte, inaugurata il 23 febbraio a Palazzo Reale. Ragiono un istante su quanto ho appena visto, prima di rispondere: assolutamente sì.
Nelle quindici opere in mostra a Palazzo Reale si concentrano tutti i temi cari all’artista italo-americano nato nel quartiere newyorkese del Queens, nel 1951: il legame con la Storia dell’arte, in particolare quella del Rinascimento toscano, che ha modo di studiare approfonditamente quando risiede a Firenze, tra il 1974 e il 1976; la profonda e intima ricerca spirituale, pervasa di senso mistico e filosofico che deriva tanto dal buddismo zen quanto dall’Islam, dal Sufismo e, non ultimo, dal Misticismo Cristiano.
Un patrimonio culturale e visivo in cui prendono vita immagini di divinità tragicamente fragili e umane, tableau vivant che citano, ad esempio, icone medievali; come nel polittico Catherine’s Room (2001), una vista privata nella stanza di una donna, sola e impegnata in semplici riti quotidiani, in una dimensione monacale, mistica. Come gli altri performers e attori, trasformata in uno dei santi e martiri contemporanei, persone incontrate casualmente per strada, travolte da eventi improvvisi.

Un senso di transitorietà e instabilità che non è solo nucleo dei temi indagati, ma fa anche parte dello stesso mezzo artistico; secondo la curatrice della mostra Kira Perov – direttore esecutivo del Bill Viola Studio, nonché moglie di Viola – la natura stessa del mondo digitale, un mondo visivo che non è materiale – la sua esistenza dipende da impulsi elettrici – ci ricorda la nostra fragilità e impermanenza.
La carriera quarantennale di Bill Viola è sintetizzata in una selezione di lavori esemplari a cui approcciarsi, necessariamente, con calma. Le performance presentate in video slow motion richiedono un tempo ben preciso di contemplazione, per lasciarsi trasportare da emozioni, meditazioni e passioni, in un percorso interiore, immersi nella penombra di un allestimento sapiente ed evocativo, nella sua semplicità.
Un invito alla lentezza, che viene offerto come un dono.
Servono davvero tutti i 10 minuti 22 secondi per apprezzare, ad esempio, The Greeting: video presentato con clamore nel padiglione americano alla Biennale di Venezia nel 1995, ispirato per forme, colori, schema compositivo alla Visitazione di Pontormo. Una scena di pochi secondi allungata attraverso un rallentamento estremo, grazie all’utilizzo di una telecamera speciale in grado di ottenere trecento fotogrammi al secondo. Un momento privo di colpi di scena, dove il tempo dell’azione è dilatato a dismisura; nei gesti, nella composizione, rivive l’opera del maestro toscano, intensificata dall’artista americano nei movimenti e nelle espressioni dell’animo dei personaggi. Per dirla con le parole dell’autore “si tratta di catturare il momento, ma anche di allungarlo. (…) Sono le emozioni che vengono tese”. Un’atmosfera sospesa e senza tempo, dove centrale è il ruolo delle emozioni, reali e genuine, dell’essere umano.

Il viaggio raccontato nelle opere – questo il termine scelto in modo accurato e non banale da Perov – è diretto verso la ricerca del senso della vita, la morte, la soglia intermedia che assume la forma simbolica degli elementi naturali. Come terra e fuoco di Martyrs (2014) e Fire Woman (2005) e, in molte occasioni, l’acqua; quella che inonda la scena di Emergence (2002) ispirata alla Pietà di Masolino da Panicale (1424) in cui il giovane Cristo imberbe che si erge da una cisterna/sepolcro/fonte, traboccante d’acqua, assistito dalla Madonna e da San Giovanni; è la cascata innaturale, che scorre in senso contrario di Tristan’s Ascension (The Sound of a Mountain Under a Waterfall) sollevando il corpo inerte di un uomo; è la linea di confine di Ocean Without a Shore (2007) in un trittico collocato su altari, che affronta il tema della soglia tra i mondi, raccontando la presenza dei morti nelle nostre vite; è il violentissimo getto che investe gli “ignari” protagonisti di The Raft (2004), interpreti di tutta la varietà umana, costretti a cercare riparo e supporto reciproco, alla ricerca dell’equilibrio, della salvezza.
Quello che ha creato Viola dagli anni Settanta a oggi sono immagini atemporali, che guidano emozioni e toccano corde profonde, temi eterni, comuni a tutti. E di cui tutti, abbiamo ancora bisogno.
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