A Treviso la Fondazione Imago Mundi analizza la guerra e la sua rappresentazione attraverso le opere di 15 artisti
Il tema trattato dalla Fondazione Imago Mundi nato con Ukraine: Short Stories. Contemporary artists from Ukraine (Maxxi, 2022) approda alle Gallerie delle Prigioni di Treviso fino al 17 settembre 2023 con la mostra La guerra è finita, la pace non è ancora iniziata, a cura di Mattia Solari. Obiettivo principale è quello di riflettere sulle ragioni dello scontro e sulle condizioni successive alla guerra, in un racconto che non si rivolge solo all’Ucraina ma interessa diversi conflitti.
La questione posta, fin dal titolo, riguarda la pace più che la guerra. Quando arriva la pace? Superficialmente e in un’epoca fortemente mediatica, si potrebbe dire, seppur cinicamente: quando non si vede più la guerra. La mostra riporta alla luce una serie di conflitti dei quali “non se ne sa più nulla”, per smuovere le coscienze ma anche una consapevolezza a proposito della rappresentazione. Si svela così quella presunzione di verità, affidata in particolar modo alla fotografia, riportandola a ciò che è: un’interpretazione, una rappresentazione, una prospettiva.
Nella società contemporanea il tempo scorre veloce e i momenti di riflessione vengono riempiti da un bombardamento continuo di immagini. Quanto è importante riflettere su ciò che vediamo? Quanto la costante esposizione alle immagini di conflitti, ci rende insensibili, apatici, anestetizzati?

A tali quesiti, replicano 15 artisti. Le opere danno un quadro complessivo nella percezione dello scontro, attraverso un’analisi di cause, conseguenze e vita quotidiana durante la guerra. Ma anche tecnologie adoperate, paesaggi o dinamiche di propaganda. Tutte le prospettive concorrono alla visione globale del conflitto, completa nella sua complessità, attraverso molteplici punti di vista. Solo in quest’ottica, nella complementarità di queste percezioni, sarà possibile comprendere cosa ha generato una guerra. Dunque, cosa rallenti così tanto la pace.

L’esposizione inizia con un video d’introduzione relativo all’immagine, alla sua manipolazione, alle fake news e alla propaganda. È significativo aprire il percorso con questa tematica, trattando la guerra come presentazione e rappresentazione di un punto di vista, non necessariamente vero. In questo modo si riflette sull’appeal dell’immagine, sull’inganno e della falsificazione, nell’epoca della post-verità.
La mostra prosegue con tre spazi dedicati alle fotografie di Maxim Dondyuk, esposte su supporti tutt’altro che canonici. La scelta curatoriale di stampare gli scatti dell’artista ucraino su teli che rimandano a manifestazioni o pietra, rivelano, ancora una volta, la volontà di indagare più livelli di lettura. Non è solo l’immagine a colpire lo spettatore ma un insieme di suggestioni che ne scuotono la percezione.

Successivamente si incontrano le opere di Terry Atkinson, il quale, attraverso un approccio di chiara eredità concettuale, mette in dialogo conflitti differenti, evidenziandone la matrice comune: l’orrore
I labirintici spazi delle Prigioni aprono a uno straniamento, a un ulteriore grado di lettura dell’esposizione. Così, la scelta di collocare gli scatti di Richard Mosse nel corridoio alimenta questa sensazione. Le fotografie di grande formato presupporrebbero uno sguardo più distante, lo spettatore è invece “obbligato” a un contatto ravvicinato, nel quale deve necessariamente cogliere i dettagli. Il particolare diventa essenziale, si nota allora la tecnica del fotografo, l’uso di una pellicola Kodak Aerochrome, dunque una riflessione a proposito della tecnologia di guerra.

La bandiera della pace accoglie il visitatore al piano superiore, procedendo si incontra la prima opera pittorica della mostra, realizzata da Leon Golub. Poi, il video-saggio di Francesco Spampinato, Shoot! Guerra, geometria e orrore con un’analisi sull’immagine, sulla sua capacità di suscitare reazioni e percezioni davanti al dolore degli altri. Perfettamente coerente sono allora le opere successive, House Beautiful: Bringing the War Home, New Series di Martha Rosler, una serie di fotomontaggi del 2008. Il percorso prosegue con Ran Slavin e la sua riflessione a proposito del paesaggio, evidente immagine di ciò che un conflitto lascia.
In una stanza spoglia, illuminata da una finestra la luce si riflette sull’opera di Francesco Arena, Letto per i giorni e per le notti. L’opera indaga la condizione di prigionia, di ripetizione disumanizzata, tipica della detenzione ma anche della vita del soldato.

Harun Farocki descrive la disumanizzazione riportando l’attenzione sull’immagine con War at a Distance. La mostra continua lungo il corridoio, dove scorrono le parole al neon di Alfredo Jaar: Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono i mostri. Proprio in questo chiaroscuro lo spettatore è portato a riflettere sulla sua empatia, sulla sua capacità di scegliere, su quella decisione che potrebbe porre definitivamente fine ai conflitti. Più avanti nel corridoio, le fotografie di Sim Chi Yin, mettono in luce le minacce, ancora attuali, del nucleare.
Articolati in due sale, le pitture di Eteri Chkadua mostrano le conseguenze della guerra sul quotidiano, in un atteggiamento surreale, nell’esposizione di un conflitto come parte della vita, con il quale è necessario convivere. A intervallare i lavori di Eteri si trovano gli Afghan War Rugs, sintomo di quanto la guerra abbia influenzato la vita di ogni giorno, le tradizioni e, dunque, l’iconografia.
Pedro Reyes e Massimo Bartolini attuano due riflessioni complementari ma opposte. Il primo, infatti, in Disarm trasforma le armi in strumenti musicali, mentre l’altro, con l’installazione di un pianoforte, rende lo strumento parte attiva nelle dinamiche di conflitto. La musica è da un lato sogno utopico della fine, dall’altro, propaganda necessaria.
Guerra. Un racconto per immagini di Fulvia Strano chiude il primo piano dell’esposizione, attraverso una narrazione delle rappresentazioni artistiche dei conflitti. Dalla preistoria all’età moderna, soggetto è il punto di vista, la percezione.
Concludono la mostra al secondo piano le opere di Jr e Mario Merz. Nella serie dell’artista francese si coglie la necessità di un futuro diverso, un messaggio di pace universale. Allo stesso modo, l’Igloo di Giap, riporta una frase del generale vietnamita, trasformata in una massima di vita, un flusso di energia e di cambiamento.
Una speranza.
LINK
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