A Palazzo delle Esposizioni antico e nuovo, sacro e profano dialogano tra loro in una mostra ironica e dissacrante che scherza con la storia
Abbiamo visto a Roma Vita Dulcis: Paura e desiderio nell’Impero Romano a cura di Francesco Vezzoli e Stéphane Verger. La mostra riflette in modo ironico (ed erotico) su reperti antichi superando la soggezione e risvegliando il desiderio. Si tenta di riattivare una connessione tra il reperto e l’emozione contemporanea, di non avere paura della storia ma guardarla senza filtri, timori o inadeguatezze.
Le opere – tesori che provengono dal Museo Nazionale Romano, molti dei quali mostrati al pubblico per la prima volta – sono da un lato capolavori e depositi della bellezza riportati alla luce, dall’altro invenzione di una nuova narrativa, volta a raccontare un patrimonio che è – ancora – vivo e recente. Umanizzare il passato, renderlo vivo, ne consente una comprensione maggiore, libera, attuale.

Ambienti
Lo spazio di Palazzo delle Esposizioni, trasformato per l’occasione in modo suggestivo e teatrale, dall’artista Filippo Bisagni, e dal direttore della fotografia Luca Bigazzi (celebrato per Così ridevano, Il Divo e La Grande Bellezza, tra gli altri), si divide in ambienti tematici, rappresentazioni di un tempo sospeso tra antico e presente, su cui Francesco Vezzoli e Stéphane Verger sono intervenuti selezionando le opere esposte. Le sette sale trattano diversi aspetti, dalla guerra all’erotismo, dal potere alla morte. La rotonda centrale ospita sette Portrait of a Diva realizzati da Francesco Vezzoli; a seguire, partendo da sinistra, le stanze si articolano in Para Bellum, Animula Vagula Blandula, Dux Femina Facti, e Certa Omnibus. Si prosegue poi con Ridentem Dicere Verum, Ubi Potentia Regnat e Mixtura Dementiae.
Ogni sala propone un dialogo, tra ieri e oggi, tra aulico e volgare, tra cultura tradizionale e pop, tra sculture e video. L’allestimento svolge un ruolo fondamentale, i giochi di luci consentono di scherzare con le opere, pongono aureole neon su busti antichi ma anche su rivisitazioni di Vezzoli. L’uso sapiente dell’illuminazione consente una condivisione, un colloquio, nello stesso momento, tra parti di film e sculture.

La scelta nell’accostamento delle opere consente di accorciare le distanze, rendendo meno evidente l’originale dalla copia, la realtà dalla finzione. In questo si coglie la capacità di creare uno shock estetico, che, reso con delicatezza, consente di domandarsi quale sia il limite del vero e del verosimile. Viene ricercato uno straniamento che alimenta il dubbio nella visione, così l’aggiunta di un ulteriore livello di lettura.
Fino a che punto si può ironizzare sull’arte e sulla storia?
La scelta di esporre, nella stessa sala (Dux Femina Facti), una testa di Medusa (Testa monumentale di Medusa, I secolo d.C, Museo Nazionale Romano), parte di una profonda riflessione sul potere femminile; alcuni ex voto a forma di utero in una teca-altare piramidale, di fronte a una citazione della Venere di Willendorf realizzata da Vezzoli e intitolata Portrait of Kim Kardashian (Ante litteram).

Ancora una volta si ragiona tra più epoche in un’ottica di de-sacralizzazione dell’aura della storia, al fine di inserirla in una nuova narrativa. Tutto è posto su un unico piano, tutto è sacro o tutto è profano. È in questo modo che si vuole creare un nuovo racconto della storia romana, perché Roma è l’antico ma è anche Cinecittà. I riferimenti sono colossali e al contempo sottili, sintomo di una ricerca del dettaglio, un gioco di incastri estremamente enigmatico e ironico.
Scherzare con la storia
Le opere di Vezzoli non solo dialogano con il passato, ma consentono una riattualizzazione che non si ferma all’aggiunta di un casco sulla testa di un busto di marmo. Si tratta, invece, di un artificio che rende contemporanea l’archeologia, spogliandola di quel velo di aulicità che non consente a nessuno di ironizzare. Il grande passato italiano risulta, agli occhi dei più, un sacro distante, un’epoca d’oro intoccabile. Insomma, una sorta di tabù. Per questa ragione l’azione di Vezzoli, per quanto apparentemente superficiale risulta profondamente necessaria. Da un lato costituisce un’occasione, per riportare alla luce, per scoprire nuovamente reperti già dissotterrati. Una riscoperta da intendersi letteralmente, poiché si tratta di opere esposte per la prima volta; ma anche un ritrovamento di senso, una nuova chiave di lettura. Per quanto possa risuonare, più che in altri contesti artistici contemporanei, quell’eco di Lo potevo fare anch’io, la potenza concettuale della mostra è un’urgenza.

L’esposizione gioca con ironia – mai scontata, con citazioni da Paolini a De Chirico – in un dialogo tra antico e nuovo, tra sacro e profano, originale e simulacro. Il sacro non è più sacro, il tabù non è più tabù: la dinamica artistica di vedo-non-vedo è dissacrante perché scherza con la storia.
LINK
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