Vergognarsi davanti al vetro dell’installazione di Alfredo Jaar One Million German Passports
L’ingresso della Pinakothek der Moderne è annunciato da grandi vetrate protette da una pensilina sorretta da colonnine sottili. Ampie finestre circondano l’edificio con l’intento di contaminare visivamente gli spazi con il paesaggio circostante. Nonostante l’arte sia silenziosa, talvolta solipsistica e spesso elitaria, una delle più frequenti modalità di autorappresentazione dei musei moderni prevede infatti che l’attività delle istituzioni sia permeabile con la società: cioè significativamente visibile ai cittadini e, in senso più ampio, con tutti i possibili visitatori.
Entro nello spazio e sono accolto da un ambiente circolare, ritmato da colonne colorate, alternativamente gialle e rosse. Scruto l’ambiente alla ricerca della biglietteria, ma a distrarmi è una struttura di vetro di grosso spessore, di forma quadrata, ampia sette-otto metri e alta circa tre. Custodisce numerosi libri dalla copertina bordeaux con le parole stampigliate in caratteri dorati: dei vangeli, penso. Sono moltissimi, svariate migliaia, accostati come mattoncini uno a fianco all’altro, ma non riesco a capire bene e sono costretto ad accostarmi al vetro, per vedere meglio. Man mano che mi avvicino mi accorgo che i libri sono più sottili di quanto immaginassi, e anche di dimensioni minori. Di fronte al vetro mi piego e leggo le parole, scritte in maiuscolo, chiudendo un po’ gli occhi per i numerosi riflessi. Die Evangelien o Das Neue Testament, immaginavo. Invece c’è scritto Europӓische Union, Bundesrepublik Deutschland, Reisepass. Non dunque vangeli da viaggio, come quelli che tante volte mi è capitato di trovare sui comodini degli hotel in Germania e Austria, ma migliaia di pile di passaporti tedeschi apparentemente appena usciti dalla tipografia e forse nemmeno scritti (non ho mai tenuto in mano un passaporto tedesco, ma il mio, italiano, non sta più ben chiuso, suppongo perché la parte stampigliata con i miei dati personali è ricoperta di plastica, compromettendo probabilmente la rilegatura).
Comincio a farmi qualche domanda, tanto più perché questo è un museo con un programma espositivo articolato, che passa dall’arte dell’ultimo secolo al design, fino all’architettura. Cosa ci fanno tutti quei passaporti, protetti da quella che sempre più mi pare una vetrata antisfondamento? Perché metterne in mostra così tanti? Perché tutti quei documenti resi inaccessibili da una teca? E allora mi guardo attorno alla ricerca di qualcosa da leggere. Leggere è spesso l’unica strategia per capire, l’appiglio per sfuggire ai tanti sgambetti che gli artisti, i designer e gli architetti fanno all’osservatore, anche il più smaliziato. Non trovo niente però, e nel frattempo vengo distratto dai miei compagni di viaggio che mi chiedono delle mostre da vedere, del guardaroba in cui mettere le borse e di altri dettagli su cui accordarci.

Cercando di rispondere alle loro domande mi avvicino alla biglietteria e in quel momento vedo una scritta su una delle pareti laterali dello spazio rotondo: Alfredo Jaar, One Million German Passports. Smetto di parlare con le persone con cui sono e mi vengono i brividi, istantaneamente. Il pensiero corre in molte direzioni e, ciononostante, molte cose cominciano a chiarirsi nella mia testa. La prima cosa è il numero. Penso che quei libricini rossi bordeaux sono un milione, un numero tondo che impressiona. Penso infatti a quanto sottile sia il mio passaporto che, benché non stia perfettamente chiuso, riesco a tenere comodamente nella tasca della giacca o dei pantaloni. Penso al volume di più di cinquanta metri cubi di carta pensata per non essere agilmente modificabile, forse non è nemmeno carta di cellulosa. Penso a quanto spazio occuperebbero tutte quelle persone, con il passaporto in tasca. E poi penso a chi un passaporto non ce l’ha e alla mia condizione privilegiata, dato che ho avuto, come molti in Europa, la fortuna di nascere in un paese da cui non sono stato costretto a scappare, di non aver mai vissuto una guerra, un colpo di stato, subito la violenza della fame o il ricatto della miseria. Penso a quell’inutile libretto di carta dalla copertina rossa, che qualifica colui che lo esibisce come cittadino di serie A, B o C. Penso alle centinaia di persone che attraversano le montagne e il mare, dopo aver pagato contrabbandieri e guardie senza scrupoli, senza avere la benché minima sicurezza di arrivare in un paese migliore di quello da cui sono partiti. Penso a chi non ce l’ha fatta, al Mediterraneo che custodisce tanti corpi, e a chi non ce la farà mai. Penso a coloro che non saranno accolti, perché i governi non fanno ciò che umanamente dovrebbero, ma quello che è conforme alle scelte politiche che ritengono più convenienti per rimanere al potere. Penso a coloro che parlano di difesa dei confini nazionali. Penso al mio paese, l’Italia, in cui chi respinge gli immigrati riceve più consensi di chi aiuta. Penso a quanti cittadini stronzi ed egoisti mi sono a fianco, in ogni ora del giorno. Penso a tutto, e poi smetto di pensare. E mi affrango.

Jaar impila un milione di passaporti della Repubblica Tedesca, pronti all’uso, ma li rende inaccessibili sotto una barriera di vetro antisfondamento, come quelle impiegate nelle zone di transito degli aeroporti. E mi fa sentire male. Perché mi mostra le contraddizioni del mio essere cittadino, che ignoro tutti i giorni, nella mia quotidianità. Egli trasforma il passaporto in un dispositivo di denuncia, in uno strumento che urla quell’ingiustizia che molti non vedono. Con quel milione di passaporti Jaar mette in scena in maniera scarna e clinica la ridicolaggine dei paesi civili, come la Germania, l’Italia, il Regno Unito, la Francia o gli Stati Uniti, che si vantano di essere paesi con leggi avanzate, ma si arrogano il diritto di aiutare solo i disperati che fanno comodo al loro sistema economico. E penso ancora a me, a quanto sono stato casualmente fortunato a nascere in un pezzo di mondo che non conosce la guerra da ottant’anni. E a quanto sono stato ridicolo per lamentarmi del fatto che il mio passaporto non stia ben chiuso. E me ne vergogno.
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- Io e un libretto rosso alla Pinakothek der Moderne - Settembre 15, 2023