All’HangarBicocca una selezione di installazioni e opere scultoree emblematiche realizzate dal grande artista americano tra il 1974 e il 1997
Un flusso di profezie laiche, dense di misticismo e filosofia, riflessioni e meditazioni che si susseguono in un manifesto dello spirituale nell’arte: questa in estrema sintesi, l’opera di Byars. Una vita iniziata negli Stati Uniti nel 1932 e terminata al Cairo nel 1997, tra Europa (Berlino, Berna, Venezia) e il Giappone, il paese che maggiormente ne influenza la ricerca, dove studia cerimoniali delle antiche religioni come lo Shintoismo, caratterizzati da rituali minimali carichi di significato e da un uso di oggetti votivi spesso fatti di carta piegata o pietre.
Una vita intrisa e confusa nell’arte che riappare nella prima retrospettiva mai dedicata in Italia a Byars, ideata da Vincent Todolì; direttore di HangarBicocca nonché amico e curatore della sua prima, una mostra a Valencia nel 1994 e a Porto, nel 1997. Sua la selezione di opere scultoree emblematiche e installazioni realizzate tra il 1974 e il 1997, un concentrato delle ossessioni sempre più ricorrenti dell’artista negli anni: i tessuti, il monocromo con particolare predilezione per il rosso, l’oro metafisico e alchemico, la ricerca della perfezione, della purezza, in una tensione continua verso il mistero e l’effimero.
Una ricerca che Byars avvia in tempi lontanissimi, già negli anni Cinquanta quando, studente della Wayne State University, rimuove tutti i mobili della propria casa rimanendo con una sola sedia; o quando, successivamente ai suoi primi viaggi in Giappone, lavora esclusivamente con inchiostro su carta.
Sono proprio gli oggetti minimi a diventare protagonisti delle sue sculture; da quelle più celebri con dimensioni monumentali come The Golden Tower (1990) una torre dorata di 21, 25 metri che apre idealmente la mostra (e che rappresenta la versione “ridotta” del grande progetto di un monumento all’umanità per uno spazio pubblico, che vedrà la luce solo 20 anni dopo la morte di Byars, a Venezia) fino alle riflessioni intime, che più di tutto sanno restituire la complessità del pensiero di Byars.
Anche per questo a colpire particolarmente, nonostante la posizione vagamente defilata, è il contenuto della piccola stanza vicina all’ingresso: uno scrigno che custodisce corrispondenze e libri d’artista e oggetti, donati da James Lee Byars all’artista Maurizio Nannucci, testimonianza di una lunga amicizia e affinità professionale tra i due artisti, nata dopo il primo incontro nel 1972. Lettere a curatori, direttori, intense e raffinate che racchiudono tutta la ricerca della bellezza e dell’armonia, scopo che Byars ha perseguito per tutta la vita, che si intuisce tanto dallo scritto quanto nella materialità delle stesse: nella scelta della carta, del colore e dell’inchiostro, della grafia decorativa, a tratti indecifrabile con cui trascriveva informazioni pratiche, poesie e messaggi personali.

Una mostra di importanza storica e – va detto – non facile per molti aspetti. In primo luogo, per la stessa ricerca di stato Byars che ancora oggi sfugge alle definizioni ma che si cerca di accostare sistematicamente a concettualismo, minimalismo, performance. C’è la sua stravaganza personale unita all’estrema privacy, la selva ancora imperscrutabile di rimandi, di concetti, evocazioni continue, allusioni alla morte, assenze codificate in forme apparentemente semplici che tali non sono ma sono, invece, ancestrali. C’è la pura illusione e il flusso della realtà, la transitorietà.
Non facile poi per l’allestimento: filologicamente ineccepibile, con la scelta di favorire un ordine simmetrico in cui le opere si fronteggiano, unite per assonanza, chiasmo o contrasto, soprassedendo all’ordine cronologico; ma anche dove forse per la prima volta gli spazi immensi delle Navate dell’HangarBicocca mostrano, paradossalmente, un limite. Se infatti le installazioni di maggiore dimensione e interazione reagiscono in modo suggestivo allo spazio, Byars is Elephant, The Chair of Transformation e la speculare Hear TH FI TO IN PH Around This Chair And It Knocks You Down, la vastità e la prospettiva estesa non premiano la contemplazione di lavori che funzionano oggettivamente meglio – e lo si è visto in altre esposizioni – in ambienti più raccolti.
Penso in particolare alla delicatissima The Rose Table of Perfect (1989) una sfera realizzata con 3333 rose rosse, in rapporto diretto con The Tomb of James Lee Byars (1986) un testamento ideologico, sintesi del pensiero e dell’ossessione di Byars: la ricerca della perfezione, l’armonia, l’assenza di orpelli e sistemi decorativi.
Penso alla grande anfora in terracotta dorata The Spinning Oracle of Delfi, 1 che qui giace ordinatamente in fila, perdendo il senso della riscoperta e parte della sua incombente sacralità.

Isolata e magnifica, occupando per intero l’ambiente del Cubo, è l’installazione che chiude idealmente la mostra Red Angel of Marseill: un corpo esteso orizzontalmente (anche qui, in contrapposizione allo sviluppo verticale della torre iniziale), mille sfere rosse in vetro si diramano a comporre la figura antropomorfa di un angelo di colore rubino. Un arabesco realizzato con i maestri vetrai di Murano, per ricordare anche il suo legame con Venezia, città dove visse e lavorò. A tratti dorata, esoterica, effimera e inafferrabile. Come Byars.
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